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194/78: una legge completamente disattesa e travisata

“Norme per la tutela  sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Questo  – pochi lo sanno – è il titolo completo della famigerata legge 194/78, quella normalmente ricordata come la legge che ha liberalizzato l’aborto. Giusto due giorni fa il ministro della Salute Speranza, dopo aver tolto l’obbligo di degenza per l’aborto farmacologico, ha scritto un tweet sull’argomento affermando che si tratta di una scelta di civiltà, nel pieno rispetto della legge 194.

Del fatto che l’aborto sia a tutti gli effetti un omicidio e che permettere di farlo – alla fine dei conti – praticamente da sole a casa, con tutti gli enormi rischi che comporta, significhi solo sminuire un gesto che invece andrebbe compreso e meditato, hanno parlato e scritto nomi ben più importanti di me. Vorrei quindi concentrarmi sull’affermazione del ministro (“Queste nuove linee guida sono un passo avanti importante e rispettano pienamente il senso della legge 194, che è e resta una norma di civiltà del nostro Paese”) per chiedermi: davvero?

Devo ammettere che sinora, non avendo affatto intenzione di ricorrervi, non mi ero mai presa il disturbo di leggere cosa dica effettivamente la legge, così l’ho fatto ora, per capire se davvero questa liberalizzazione ne rispetti, non solo la lettera, ma persino il senso.

La prima considerazione riguarda, appunto, il titolo. Salta infatti subito agli occhi che in realtà il primo obbiettivo che la legge si pone è la “tutela sociale della gravidanza”. Su 22 articoli, infatti, fatti salvi quelli procedurali, i primi 5 sottolineano in ogni modo come sia necessario evitare il più possibile il ricorso all’aborto e per questo viene ritenuto fondamentale il lavoro dei consultori, che devono mostrare alla donna tutte le possibili strade che le si presentano per non abortire e – addirittura! – per essere aiutata a tenere con sé il bambino dopo la nascita.

Secondariamente si può notare che gli articoli che riguardano la possibilità di abortire (che per il legislatore rimane sempre e comunque l’ultima scelta) parlano di situazione di assoluta necessità, medica o psicologica, che deve essere ampiamente accertata dai medici, dopo aver fatto il possibile per convincere la donna a non abortire. Inoltre la procedura deve seguire tempi e modalità ben precisi, volti a garantire non solo il controllo sul fatto che non si tratti di un capriccio o di un’imposizione esterna, ma anche che la salute della donna venga adeguatamente salvaguardata. Come logico, la norma è molto più stringente nel caso di richiedenti minori.

Infine, non si può non considerare il fatto che la legge 194 tenga conto anche del padre del concepito, che, secondo il legislatore, prende parte ai consulti medici e alle decisioni.

Bene. Alla luce di questo, in che modo esattamente, la nuova disposizione del ministro Speranza rispetta, non dico la lettera, ma “il senso della legge 194”?

Questa è probabilmente la legge più disattesa della storia della nostra Repubblica. Quando mai, infatti, la donna che chiede di abortire segue l’iter che dovrebbe prima portarla nei consultori (dove la legge dice che si dovrebbe cercare di evitare in ogni modo l’aborto) e poi verificare con i medici se davvero l’atto richiesto sia necessario? L’aborto, ormai, viene praticato a richiesta, con motivazioni generiche e stereotipate. Averlo legalizzato in casi estremi lo ha reso – nel giro di pochi anni, se non mesi – un vero e proprio diritto (reclamato a gran voce), anche se la legge 194 NON dice questo e NON è nemmeno nata per questo.

Permettere alle donne di concludere una gravidanza da sole in casa (dopo un breve day-hospital che, ne sono certa, verrà presto eliminato nella pratica) peggiora solo l’inosservanza della legge, visto che non garantisce non solo che venga seguito l’iter richiesto, ma nemmeno la tutela della salute della donna (i dati sulle morti legate alle pillole abortive all’estero sono preoccupanti, ma ignorati). In pratica lo Stato, dopo aver affermato l’enormità, in senso medico e umano, che l’aborto è equiparabile all’estrazione di un dente, si lava le mani rispetto alle conseguenze che questo atto può avere perché tanto è la donna che lo porta a compimento nel segreto e nella solitudine della propria casa. Intanto lo Stato risparmia e gongola.

Alle procedure semplificate accede chiunque (per ora c’è ancora un controllo sulle minorenni, ma con un ampio margine per escludere i potenziali nonni dalle decisioni), per qualunque ragione (non è che se ne debbano fornire molte) e in qualunque momento e tutto ciò viene rivendicato come un diritto. Non solo si tronca – spesso senza motivo alcuno, se non la propria leggerezza – una vita, ma si mette a rischio la propria e si compromette possibilità di procreare in futuro. Per cosa? Solo perché questo è possibile. Solo perché ormai siamo tutti convinti, le donne in particolare, di bastare a noi stessi, che il nostro piacere sia la misura della nostra felicità. Connotazioni tipicamente femminili come il dono di sé e il desiderio di maternità (che non tutte hanno o sentono fortemente, è vero, ma che resta insito nell’essere donna) sono state progressivamente banalizzate e poi discreditate fino a che sono diventate abomini primitivi. Le leggi dello Stato e più ancora la loro interpretazione lassista non hanno fatto che confermare quest’idea: la gravidanza è una malattia e l’aborto è una cura. Oggi la cura può essere somministrata e assunta con poche precauzioni in più rispetto all’aspirina: dal togliersi un dente siamo passati al curare un raffreddore.

Direi che nulla di questo rispetta in qualche modo il senso della legge 194, di cui vale la pena di leggere integralmente almeno il primo articolo, quello che dovrebbe chiarire le finalità della legge stessa.

“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio.

L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite.

Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.”

Mi pare chiaro: ognuno può, quindi, trarre le proprie conclusioni sugli eventi di questi ultimi giorni.

Alcuni riferimenti:

http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=61073 (anno 2018)

https://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2009/10/21/visualizza_new.html_989529292.html (anno 2009)

https://www.ilfoglio.it/articoli/2014/04/25/news/limbarazzo-dei-sostenitori-della-ru486-la-pillola-che-ammazza-le-donne-55727/ (anno 2014)

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