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Vent’anni senza Fabrizio De André

11 gennaio 1999: muore Fabrizio De André. Ricordo ancora quella mattina di inverno: avevamo da poco ripreso le lezioni dopo la pausa natalizia. Giunse in classe la prof.ssa Consiglia Massimo, docente di Italiano e Storia, e commossa ci comunicò che era morto colui che considerava il più grande poeta contemporaneo della storia italiana del Novecento. Tentò anche un parallelismo tra le sue canzoni e addirittura la Divina Commedia.

Di Fabrizio De André spesso mi aveva parlato mia madre quando ero ragazzino. Mi diceva spesso che le sue canzoni non erano come quelle che giravano in radio o in televisione, ma qualcosa di più. Mi raccontava spesso della storia del rapimento in Sardegna nel 1979 e di come l’Italia avesse vissuto l’ansia di quella sorte. Mi parlava spesso dei testi delle canzoni che raccontavano storie di persone emarginate.

Fino a quell’11 gennaio, in verità, avevo ascoltato poco del grande cantautore genovese. Conoscevo La guerra di Piero, Bocca di Rosa, La canzone di Marinella e poco altro, ma in sostanza la sua musica mi restò pressoché distante, poiché ero fortemente attratto dall’affascinante mondo del rock.

L’anno successivo, in occasione della pubblicazione dell’album All that you can’t leave behind, Bono e Larry Mullen degli U2 rilasciarono in esclusiva un’intervista a Fabio Fazio, all’epoca ancora conduttore del programma Quelli che il calcio e di due Festival di Sanremo. Al termine dell’intervista Fazio regalò due dischi di De André agli U2: il live tenuto al Teatro Brancaccio e un raccolta. Bono osservò ammirato le copertine dei due cd e poi li strinse sul petto in segno di rispetto.

Quella lezione commossa della mia professoressa di Italiano e quel momento durante un’intervista suscitarono in me la curiosità di ascoltare qualcosa di quel grande cantautore. E così recuperai innanzitutto i dischi che Fazio volle regalare agli U2 e poi da lì recuperare tutta la sua opera.

Non voglio ora spendermi in una bordata di retorica a buon mercato sulla grandezza delle canzoni di Fabrizio De André (ce ne sarà comunque tanta in questi giorni), ma ci tengo a sottolineare come la prospettiva del grande cantautore genovese è diversa da qualsiasi altra si possa considerare nell’osservazione di questo mondo; tutto quello che noi riteniamo detestabile, contrario alla morale, per lui diventa lo specchio di una bellezza indicibile. I suoi “miti” sono i ladri, le prostitute, gli ubriachi e i vagabondi, non certo i borghesi, i benpensanti. In un certo senso nelle sue canzoni prende vita il detto di Cristo “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31).

L’altra cosa che mi ha sorpreso, e forse di certo non voluta, è una certa inclusione che raccoglie tutta la sua opera: il suo primo album, Volume 1, pubblicato nel 1967, che raccoglieva e rivisitava alcuni dei suoi primi singoli, si apriva con la “Preghiera in gennaio” dedicata all’amico Luigi Tenco, morto suicida a Sanremo. Il suo ultimo album, Anime salve, pubblicato nel 1996, e composto a quattro mani con Ivano Fossati, si chiudeva con la “Smisurata preghiera”, ispirata al Gabbiere di Alvaro Mutis. Due preghiere atipiche dove i disadattati elevano la loro supplica a quel Dio che sa ascoltare il loro lamento e non giudica il loro dolore.

Penso che il compito dell’arte sia quello di mostrare l’indicibile all’uomo e Fabrizio De André, pur con tutti i suoi limiti di uomo, è riuscito in questa grande impresa. Tutti gli siamo debitori di tanta bellezza e tutti sappiamo che quel triste 11 gennaio di vent’anni fa, con lui “se ne partì la primavera”

 

 

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